Agosto di neve
il LATO DEL CERCHIO - 30 MARZO 2020
Sono nata il primo dell’anno. È un giorno sfigato in cui nascere perché non si è gli unici ad avere qualcosa da festeggiare. Mia madre non vedeva l’ora di partorirmi per poter andare in Piazza Maggiore a lanciare bottiglie, mio padre era già lì a stapparle, mi piace pensare che una fosse per me, ma non ne sono sicura. Di solito c’è sempre un compassionevole ubriaco che a mezzanotte mi fa gli auguri: «Ah giusto, auguri bella, cioè buon compleanno», tenero angelo della notte, se non proseguisse dicendo «bella zi', c’hai qualche moneta?» maledetta zecca elemosinatrice di sbornie almeno quanto la sottoscritta mendichi affetto. Oramai nemmeno Facebook mi caga più. La mia festa è sempre in secondo piano, come il mio appartamento e come me in quasi tutte le foto. Di solito mi consolo pensando di essere la primogenita dell’anno, ma poi l’educazione cattolica mi ricorda che i primi saranno gli ultimi. Mai una gioia.
Probabilmente se fossi nata il due Gennaio sarei meno pessimista. C’è un’enorme differenza tra chi festeggia l’ultimo dell’anno e chi il capodanno. Io appartengo forzatamente alla prima categoria. I compleanni festeggiano sempre la conclusione di un anno: compi trentaquattro anni, ma in realtà entri nel trentacinquesimo, come a sottolineare che sia più importante il passato del presente.
Ogni anno spero che il mio compleanno tardi di qualche giorno in modo da potermi godere le due feste separatamente, ma è sempre puntuale. Dovrei rassegnarmi ad adottare il calendario cinese, il mio è stato l’anno del Bue, un animale castrato… Come disse Trenitalia: le coincidenze non esistono.
Per il mio compleanno ho ricevuto un binocolo… usato… da mio fratello… usato anche da mio fratello, non ho idea chi sia stato il primo proprietario. L’ha comprato in una di quelle irresistibili bancarelle russe che si trovano nelle piazzole vicino a strade trafficate. Solitamente vendono abbigliamento militare, coltellini, vecchie spille della guerra fredda, protesi gengivali, giovani ragazze dell’est che fingono di far parte della clientela e binocoli con la fantasia mimetica come quello che ho ricevuto io.
Sai quando dici “meglio di niente”?, no, era senz’altro meglio niente.
Chi mai sceglierebbe un binocolo avendo come alternativa una giovane ragazza dell’est? Persino una donna preferirebbe la signorina. Conoscendo mio fratello è possibile che avesse intenzione di noleggiare una di quelle giovani bionde ma, al momento di scegliere, colto dal sospetto che qualche conoscente di passaggio lo vedesse, ha ripiegato su questo utilissimo binocolo in modo da spiare quelle bellezze nordiche con discrezione da una certa distanza mentre maneggiava il cambio.
E poi lo ha rifilato a me.
L’importante è il pensiero. Il pensiero insito in un oggetto usato è: non mi serve più, lo do via.
Sono maliziosa?
Vivo a Bologna in un condominio a forma di comodino. Vorrei fare notare la scelta del verbo “vivere” piuttosto di “abitare”. Trascorro la mia esistenza nel mio appartamento. Dovrei usare il binocolo per distinguere meglio le sfumature di grigio sul muro del palazzo davanti? L’unico utilizzo concreto è capovolgerlo e guardarci dentro dalla lente più grande a quella piccola in modo da avere la piacevole illusione di un locale più spazioso.
Sono a favore del riciclo, ma le cose usate oltre a farmi sentire sporca mi mettono in imbarazzo: se qualcuno mi vedesse usare lo stesso binocolo di quel pervertito di mio fratello potrebbe anche scambiarmi per il guardone che spia da lontano le bancarelle.
Per ora l’ho appeso all’attaccapanni nell’attesa che Banksy venga a disegnare qualcosa nella parete del cortile.
Probabilmente lo riciclerò al prossimo compleanno a cui sarò invitata, l’ultimo è stato alle elementari; a quel tempo avrei fatto un figurone regalando un binocolo mimetico.
In agosto Bologna sembra immersa nell’acqua. Sia perché c’è un’umidità stagnante, quasi tutti i giorni rischio di annegare nel mio sudore, sia perché aleggia una strana quiete, un silenzio che rallenta tutto.
Era agosto quando usai il binocolo per la prima volta.
Stavo facendo colazione in bagno, come d’abitudine. Adoro la comodità della tazza del cesso e la capienza di quella da latte. Adoro gli spazi chiusi. Adoro il cappuccino, ma soffro di una grave intolleranza al latte quindi è più saggio gustarlo nella toilette.
Non bisogna rinunciare ai piccoli piaceri della vita, lo diceva anche John Belushi, una massima che non lo ha portato molto lontano, ma non possiamo paragonare un cappuccino allo speedball. Probabilmente John soffriva di una lieve intolleranza alla combinazione di eroina e crack.
La pancia mi ha sempre dato problemi: sia per questioni estetiche (convivo da sempre con il pressante desiderio di partorire); sia per questioni pratiche (ad eccezione del grande vantaggio di un comodo leggio, è veramente ingombrante); sia per questioni intestinali (per non essere annoverata tra le cause di inquinamento globale devo stare ad una distanza massima di cinque minuti da un gabinetto libero). Uno dei miei incubi più terrorizzanti si può rappresentare con un rotolo finito di carta igienica: entro nel panico. Dovrebbe esserci una pena per chi finisce il rotolo senza sostituirlo, è un evidente segno di indifferenza nei confronti del prossimo, verso le generazioni future; mi pare che Greta Thunberg lo abbia scritto anche in un cartello.
Una volta sono stata costretta a strappare delle pagine da un Dylan Dog per pulirmi: ero a casa di un’amica ai tempi dell’università - per fortuna era una di quelle persone a cui non interessa che i libri assorbano odori poco raffinati - ho letto tutto il fumetto per capire quali pagine fossero più rilevanti, in modo da trasformare la mia necessità in una punizione esemplare. Era un episodio di merda delle ultime ristampe, ma alla fine scelsi le vignette più importanti e ne feci buon uso. Ecco perché ci sono più rotoli intorno al mio water che intorno alla mia pancia. I rotoli di carta igienica mi hanno salvato più volte, sono il mio personale bay watcher quando annego in un mare di merda.
Ad un certo punto emerse dalla finestra il vagito di un neonato seguito da un farfugliare telegrafico incomprensibile. Lì per lì ebbi il terrore che venisse dal cestino dell’umido. Erano diversi giorni che non lo svuotavo e l’ultima volta mi era sembrato si muovesse.
Non avevo voglia di alzarmi. La mia mole umettata si appiccica ad ogni superficie con cui entra in contatto, i miei peli tendono a mettere radici da entrambi i versi. Mi immobilizzai dopo appena il primo passo: avevo un formicaio dentro la gamba sinistra e non osavo muovere la destra.
Vi sono due principali controindicazioni alla sosta prolungata sulla ciambella del water; il primo e più spiacevole è l’alone rosso a ferro di cavallo che si imprime sulle cosce come se avessi preso una pedata da uno stallone colossale; il secondo è il conseguente formicolio agli arti inferiori. Sono quei dolori che fanno venire da ridere nonostante la tortura, come la satira politica. Per un lungo periodo della mia vita ho pensato di fare il comico, ma ogni volta che lo dicevo la gente si metteva a ridere. Pensavo fosse un buon inizio, invece un comico che fa ridere quando non scherza è solo un pagliaccio. Sono diventata un consulente finanziario: prendo in giro le persone comunque, ma senza divertirle.
Le formiche mi assalgono le gambe quasi tutte le mattine: si infilano tra le pieghe di grasso delle cosce e diventano invisibili, di solito aspetto che affoghino nel sudore che ristagna in quei crepacci, ma lo strillo del bambino continuava a gonfiare la mia curiosità, così mi avvicinai dolorosamente alla finestra che dà sul cortile.
Dovrei perdere peso. L'origine dell'obesità americana deriva da una alimentazione sbagliata, quella italiana invece deriva da «non mi lascerai mica quei due bocconi in padella», non sono stata abituata ad essere sazia, ma a finire il cibo a prescindere dalla quantità, finché c’era ancora da mangiare si doveva avere fame.
Nel cortile interno un bambino di circa due anni cercava di gattonare ed un vecchio di almeno due secoli anche. Non si capiva chi dei due imitasse l’altro e nemmeno chi riuscisse meglio nell’esercizio. La scena era comica e tragica allo stesso tempo perché il bimbo piangeva, probabilmente ustionato dal pavimento, ed il vecchio cercava di calmarlo pronunciando dei versi incompleti come in una esibizione di beatbox. Credo fosse stato balbuziente.
Se esistesse anche l’udito balbuziente il balbettio sembrerebbe un fluido discorso. Sempre che i due problemi siano sincronizzati.
L’aria che gocciolava sul davanzale si addensava ovunque, una coperta di flanella sfilava continuamente sulla pelle e sembrava di respirare dentro un aerosol. Stranamente dalle bocche dei due non uscivano bolle d’aria e ancora le cozze e altri molluschi non si erano attaccate alle panchine.
Agosto è una di quella stagione in cui dentro casa è più fresco di fuori e quando apri la finestra è consigliabile indossare una maschera da saldatore. La stessa sensazione di merda di quando prendi uno yogurt dal frigo e alla prima cucchiaiata ti accorgi che è maionese calda.
Non capivo quale fosse stata la dinamica della situazione: forse l’anziano era caduto tenendo in braccio il bimbo ed a causa del ruzzolo ora non si riusciva più ad alzare. O forse si stavano esercitando alla break dance. Entrambi erano molto impacciati, due corpi sott’acqua si sarebbero mossi con più scioltezza, sembrava quasi fossero immersi nell’albume trasparente di un gigantesco uovo il cui tuorlo è il sole. Due frammenti di guscio finiti dentro la padella, quasi impossibili da togliere senza sporcarsi le mani. Decisi di lasciare perdere, ma poi il rimorso mi costrinse ad esaminare meglio la situazione.
Presi il binocolo. L’idea che qualcuno mi vedesse spiare il cortile con quel coso per un attimo mi paralizzò.
Come si azzardano a definire mimetica una fantasia di macchie verdi in un mondo grigio! Ormai le uniche cose con cui si mimetizzerebbe sono conservate negli orti botanici; dovrebbero farle color incarnato, almeno si confonderebbe con la faccia.
Mi sbloccai da quel momento di imbarazzo pensando che chiunque mi avesse visto avrebbe confuso quell’oggetto per un vaso o un mazzo di insalata.
Le lenti erano bollate con un mosaico di impronte, come se qualcuno abituato al sensore dell’iPhone avesse cercato di sbloccare il binocolo con l’impronta prima di guardarci dentro e capire che non è elettrico.
Mio fratello è fissato con la tecnologia, quando gli ho prestato la raccolta di racconti di Amy Hempel mi ha insultato per tutta la durata del passaggio di mano perché non utilizzo il Kindle. Per carità ho un animo pratico, mi piace l’idea di utilizzare meno carta: non compro libri di poesia perché mi irritano tutti quegli spazi bianchi sprecati. Tuttavia non sono pronta a rinunciare ai libri e soprattutto alla libreria. Se iniziamo a trasformare tutto in formato digitale che cazzo ci teniamo poi sulle mensole?
“Ragioni per vivere” contiene quasi cinquanta racconti, così gli ho detto: «Devi utilizzare l’indice per consultarlo» e lui ha iniziato a premere il dito sulla copertina aspettandosi non so che cosa. A volte ho il sospetto che i geniali inventori delle tecnologie abbiano il segreto intento di rendere cretini chi le utilizza.
Io e la tecnologia andiamo di pari passo: faccio sempre più fatica a ricordarmi la password tanto quanto il mio computer a riconoscerla; invecchiamo alla stessa rapidità, e per preservare la mia autostima ignoro tutti gli aggiornamenti. Ultimamente è un po’ lento, si sarà messo d’accordo con il mio metabolismo.
Come una tartaruga capovolta, il vecchio non era avanzato di un centimetro ed il bimbo, che non riusciva a raggiungerlo, non piangeva più, ma aveva un’espressione pensosa e dispiaciuta. Cercai di interpretarla attraverso le lenti di ingrandimento e mi parve di capire il suo pensiero: «ecco come finirò; come ho iniziato: arrancando».
Il vecchio e il bambino erano la sintesi di un’intera vita di cui si vedevano solo gli episodi più significativi: l’inizio e la fine; due lenti opposte dello stesso binocolo, dalla più piccola alla più grande, e in mezzo, tra le due, l’invisibile crescita.
Questo pensiero mi indusse a sforzarmi di ricordare, di mettere a fuoco gli attimi di invisibile crescita, le memorie perdute che collegano ricordi chiari: il giorno della mia nascita (la neve che imbiancava Piazza Maggiore, mia madre appena dimessa e mio padre con tutta quella gente); i primi passi; il primo giorno di scuola; la gita; il matrimonio di mio fratello; le torri gemelle… e mi resi conto che quei ricordi chiari, le immagini del mio passato, non sono altro che fotografie: attimi di vita che passando tra due lenti si sono impresse su una pellicola. Tutte le immagini che ricordo sono figure viste stampate o proiettate sul muro di casa, quando ancora si faceva.
Ridiamo dell'aborigena idea che la fotografia rubi l'anima ma in qualche modo è così, la macchina fotografica ci deruba dei ricordi, lasciandoci solo un’immagine fissa, immobile, sostituendo tutte le sensazioni sfumate e sfocate dal tempo. E va a finire che la luce vista in fondo al tunnel della vita non è altro che la schermata bianca alla fine del carrello delle diapositive.
Iniziai a lanciare rotoli di carta igienica dalla finestra, come fossero salvagenti da una nave, e sembrò nevicare in agosto, tutto il cortile ghiacciato, come il primo gennaio di trentaquattro anni fa.
Il vecchio e il bambino?
Chi se ne frega.
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