Uguale : Nebbia = Circa : Onde
il LATO DEL CERCHIO - DOMENICA 14 GENNAIO 2018
Il mare denso, la sabbia vagabonda sulla riva, nessun ombrellone d’intralcio. Le passerelle dei bagni finalmente sepolte ed i campeggi estivi desolati; roulotte quiete, appartamenti inerti, serrande calate e parabole esanimi. Un ventilatore sul davanzale soffia l’aria oltre gli scuri. La rete circolare ingabbia le ventole e funge da iride all’unica finestra sveglia della riviera, il solo segno di vita nel muro di cemento che separa il litorale dalla provinciale.
A fine ottobre, al nostro arrivo, il matematico era già lì. Condividevamo la pacatezza di quei luoghi svaniti, reduci di una stagione spossante, insieme e tuttavia non in compagnia l’uno dell’altro rispettavamo l’atmosfera dilatata di quella riva, che ormai scoraggiava il contatto tra i rari turisti tardivi.
L’autunno non lascia molte opportunità di svago sulla costa marchigiana ai confini con la Romagna, le infestanti possibilità offerte nei mesi feriali erano state prosciugate durante l’estate. Oltre alla sabbia fredda non v’era rimasto che qualche biliardino abbandonato all’aperto con il campo mosso imbevuto d’umidità ed il mare, divenuto ormai un’attrazione uditiva più che fisica. I miei genitori, come altri pensionati, si piantavano assieme alle loro leggere seggiole da campeggio, pressappoco a metà strada tra gli stabilimenti balneari spenti e l’inizio della sabbia bagnata. Collegando questi punti vivi sulla spiaggia si tracciava un involontario parallelo di vecchietti che tagliava a metà il lido. Quella precisa distanza dalle onde si accorciava ogni anno assieme alla salute uditiva di mio padre: la prossimità al mare non era stabilita visivamente ma tramite lo sciabordio dell’acqua, un suono in grado di massaggiare i pensieri, efficace quanto un monotono mantra, con un guizzo d’irregolarità che solo l’improvvisazione naturale è in grado di rendere spontanea. L’esatta intensità della litania marina si regola aggiustando il punto da cui la si ascolta: le sdraio si avvicinavano e si ritiravano sulla spiaggia seguendo l’orecchio e l’impeto giornaliero del mare, così durante la settimana tutte quelle postazioni si spostavano mimando le maree, come paguri in cerca di cibo al ritirarsi dell’onda. Ognuno aveva il suo metro, eppure tutte quelle seggiole finivano curiosamente per allinearsi lungo la stessa parallela aderendo ad una contaminazione reciproca indotta dal primo ascoltatore arrivato sulla spiaggia.
Noi ragazzi non eravamo da meno: trascorrevamo i pomeriggi sulle panchine della pista ciclabile che collegava i bagni del lungomare, chiacchierando del niente e guardando qualsiasi cosa sui cellulari, tuttavia l’unico argomento in grado di eccitare attivamente la nostra attenzione era l’inspiegabile finestra del matematico. Da anni cercavamo di risolvere l’enigma di quel ventilatore acceso per tutto il giorno fino al calare della notte, ottusamente rivolto fuori dalla stanza a contrastare la rotta dei flutti. Le nostre ipotesi, nel corso del tempo, avevano acquistato credibilità: con quella debole corrente sperava di ostacolare il ritorno di qualche imbarcazione a vela, poteva essere un eccentrico rimedio contro le ultime zanzare tigre, magari una ricerca scientifica impossibile da comprendere, un placebo psicologico contro l’idea degli tzunami, una specie di acchiappasogni elettronico, forse puntarlo verso l’esterno era l’unico modo di utilizzare un ventilatore in inverno, oppure un rimedio meteorologico per scacciare la puntuale nebbia serale. Nessuna di queste teorie era stata dimostrata perché a dispetto di tutti gli altri anziani da spiaggia, che avevano intrapreso una cordiale seppur distaccata conoscenza reciproca, il matematico era uno dei pochi pensionati a passeggiare, e a causa del suo perpetuo moto era difficile per i nostri genitori condividere con lui altro da un cortese saluto. La curiosità ci spingeva a rimproverarli ogni sera per non essersi sforzati di trattenerlo e percepire indizi utili alla soluzione del problema.
Il 2017 fu l’anno della rivelazione: la commissione di Stoccolma assegnò il Nobel per la fisica ad un tedesco e due statunitensi per la dimostrazione delle onde gravitazionali, ed il matematico iniziò a parlarci. Il suo apparente interesse per noi era invece dirottato sui nostri smartphone dalla sete di informazioni riguardo al premio Nobel.

{ Il vostro impegno a rimanere immobili su questa panchina è tanto perseverante quanto persistente l’ostinazione della terra a farvi muovere su di sé }.

Fu la prima frase che ci rivolse. Doveva essere, nelle mente algebrica del professor Minaccia, una frase efficace per attaccar bottone con dei bighelloni come noi. Non prestammo nemmeno attenzione a quell’astrusa osservazione enunciata d’improvviso e alla dissonante cadenza nordica, tanto fu lo stupore per esser stati avvicinati dal soggetto dei nostri interessi. Avevamo osservato la scena fin da quando il matematico era apparso in fondo alla passerella, oltre il limite della nitidezza focale, desiderando che si fermasse a parlarci come era improbabile accadesse, ma allo stesso tempo notando che tutto sembrava portare a quell’evento. La stessa ansia d’attesa la provavamo quasi tutte le sere ad ogni buca del minigolf in cui ci intrufolavamo con una torcia, una pallina del calciobalilla ed un bastone da passeggio, quando la palla sembrava andare in buca.
Dopo la nostra accondiscendenza a ricercare notizie sul Nobel, ci furono molte altre frasi simili nei giorni seguenti. Quei momenti di dialogo erano diventati così preziosi per noi da permetterci di abbandonare la postazione sulla panca solo all’ora dei pasti, che avevamo regolato seguendo le cadenze di quelli del professore, e dopo la chiusura delle imposte intorno alle undici di sera. Solitamente riuscivamo a scambiare solo qualche parola con lui prima e dopo la passeggiata mattutina, e più approfonditamente alla partenza ed al termine di quella del tardo pomeriggio. Percorreva tutti gli scogli, dal molo fino all’ultimo in mare aperto, ritirandosi solo quando la marea minacciava la sommersione del ponte in cemento. L’innalzarsi dell’acqua montava in lui la voglia di chiacchierare o per lo più di inondarci di riflessioni.

{ Il confine del mare racchiudendo la tensione dell’acqua divide l’onda di luce con una linea di frazione, riflettendo i dividendi e rifrangendo i divisori. Equiparando in una similitudine il pensiero all’onda, anch’esso si divide attraversando la mente, e se le riflessioni stanno in superficie illuminando l’ovvio, l’osservazione istintiva devia per via propria nella profondità della coscienza}.

Immagino intendesse nobilitare con questa considerazione la genuinità del carattere congenito rispetto ad una personalità costruita che tutti noi ci impegnavamo ad indossare, convinti di risultare più interessanti l’uno agli occhi dell’altro. I temi dei nostri colloqui non erano mai spontanei come accade in incontri improvvisati, la logica di un appuntamento programmato si risolveva in conversazioni studiate, e per le quali esigeva che ci preparassimo. Riaffioravano in lui i modi da insegnante messi a punto in tanti anni di scuola, quando l’unica interazione bidirezionale con i ragazzi avveniva attraverso un’interrogazione, ma presto l’austerità naufragava trasformandosi in confidenza dalla quale emergevano gli aspetti più istintivi del suo animo scienziato. Dopo i primi passi che avviavano la camminata pomeridiana si sporgeva sulla panchina per dettarci il tema da approfondire nel tardo pomeriggio, per il quale avremmo passato tutta la giornata a fare ricerca sugli smartphone. Come lettere fermoposta tornava a ritirare le commissioni a fine giro, perciò iniziammo a chiamare la panchina: fermopanca.
Le ultime ore di sole duravano ogni giorno meno e la nebbia serale attutiva sempre più il bisogno di appostarci al fermopanca. Ci rintanavamo al bar lungo la provinciale, il primo locale aperto in direzione della città; per arrivarci occorreva oltrepassare un cavalcavia pedonale ed un sottopassaggio annacquato e fetido, che attraversavamo correndo in apnea. Il locale era il piano terra su cui cresceva una palazzina condominiale, dagli appartamenti sovrastanti scricchiolavano le tubature, mentre dalle pareti laterali schioccavano nervosi gli schiaffi sui muri della lavanderia, segno che la caccia alle zanzare non era ancora chiusa. Spesso eravamo gli unici clienti e, non essendoci permesso di consumare altro che Goleador, non ci spiegavamo come facesse il locale a non fallire. Fino al tremendo tredici Novembre eravamo riusciti a dedurre, dal nostro rapporto con il matematico, che il ventilatore era l’unico suo elettrodomestico animato, non aveva televisione, computer o cellulare, mancanza alla quale sopperiva fermandosi al fermopanca, ma ora che l’inverno alimentava il maltempo temevamo di dover rinunciare ad appagare la nostra curiosità.
Invece, in quei giorni di letargo scoprimmo molto più di quanto il professore mai ci rivelò. Fu una coincidenza: il proprietario del bar aveva affittato per tanti anni l’appartamento al matematico che alla fine glielo aveva comprato.

[ Un tipo strano quel professore: pur avendo acquistato casa continua comunque a pagare l’affitto. Le abitudini sono dure a morire. ]

Intrattenendoci con il nostro nuovo interlocutore, abituato per professione a coltivare pettegolezzi, arrivammo ad una soluzione inattesa. Quando ancora frequentavamo il ginnasio, aleggiava su tutte le scuole superiori l’intimidatoria fama del professor Minaccia. Era docente di matematica e fisica all’istituto tecnico, e pareva essere l’unico in grado di tenere a bada gli alunni più indisciplinati e vagabondi tramite un’impietosa condotta ai danni della scolaresca. In confronto al liceo classico, il “tecnico” era considerato un carcere, vuoi per l’architettura in cemento vivo che circondava le aule, vuoi perché la maggior parte degli alunni frequentava la scuola con la stessa volontà con cui si affronta la prigione, tanto da concentrare gli sforzi dei professori nel governare piuttosto che insegnare. Non ci chiedevamo se “Minaccia” fosse un soprannome o un vero cognome, quel nome era divenuto epico e ci divertivamo a immaginare il mitico docente torinese come un leggendario eroe vichingo capace di affrontare un’orda di bifolchi, imbracciando una riga di legno per riportare l’ordine e la dottrina.
Da tutti i dati raccolti durante la posta al bar derivava una meravigliosa conclusione: il matematico era il professor Minaccia. I’unico sistema in grado di confermare questo enunciato era la verifica tramite lo stesso professore. L’occasione si presentò la sera del tredici Novembre: partita di qualificazione ai mondiali in Russia; Italia - Svezia ultima possibilità di vittoria per i nostri giocatori dopo aver perso l’andata 0 - 1. Per l’evento tutti i paguri avevano abbandonato la casa, ogni sedia del bar era occupata, qualcuno aveva portato quella da spiaggia, le suole di legno scivolavano sui granelli di sabbia mimando i passi dei giocatori nel campo; l’apprensione inumidiva l’aria concentrandosi in goccioloni sugli specchi oltre il banco, poi, a metà partita, entrò il matematico. Si avvicinò al nostro tavolo sedendosi sul bidone cilindrico poco più basso di uno sgabello. Il barista gli portò un abbondante bicchiere di Borghetti, un cuscino, e per non disturbare sussurrò con sincera devozione:

[ Professore, anche questo mese, grazie ].

La partita terminò in un silenzioso 0 - 0, un pareggio che più di provare l’equivalenza delle squadre sottolineava il declino della nostra. Su alcuni tavolini iniziarono delle briscole e la serata continuò a calare in quell’atmosfera tipica italiana in cui ognuno pensa alle proprie carte dimenticandosi che vengono dallo stesso mazzo. Avevamo trascorso tutto il secondo tempo a ricercare su internet un argomento valido e pertinente per trattenere il professore al nostro tavolo: combinazione volle che l’ultimo mondiale al quale l’Italia non partecipò fu quello del 1958, disputato proprio in Svezia. A quel tempo il professore era poco più di un bambino, l’età degli album delle figurine, delle pallonate nei vicoli e delle partite in bianco e nero, gli anni Cinquanta, il periodo delle peggiori prestazioni nella storia della Nazionale italiana, privata degli atleti del Grande Torino con la tragedia di Superga.

{ Sebbene la matematica ci insegni che ad uno stesso esito si possa giungere con addendi differenti, per quanto sia uguale il prodotto finale, il risultato è sempre la conseguenza dell’operazione }.

Enunciato l’assioma il professore si rabbuiò con la stessa rapidità con cui si accesero i lampioni fuori dalla vetrina. I suoi occhi erano una serranda, semichiusi, in cerca di qualcosa lontano anni. Dal bicchiere stretto in mano saliva l’aroma di caffè riscaldato dal palmo, anche i capelli sembrarono respirare quell’odore perché si eccitarono improvvisamente per poi svenire sulla nuca. La nostra curiosità ci rese scaltri per poter cogliere ed allo stesso tempo incapaci di rispettare quel suo momento di intima vulnerabilità.

( Lei è il professor Minaccia? ) { Sì }.

Rinvenì dai suoi pensieri nebulosi e iniziò a stiracchiarsi, del tutto ignaro di aver appagato il nostro desiderio di conoscenza, e di impersonificare il mito del nostro ginnasio; si esibì in smorfie sinistre con l’evidente intento di stapparsi le orecchie - deglutì, finse sbadigli, espirò dal naso chiuso - rievocando ai nostri occhi le origini del suo leggendario cognome.
Ogni sera l’alta pressione faceva scendere la nebbia sulla costa e, per quanto le variabili climatiche fossero inconfutabili, l’impressione di tutti era che quel vapore blu salisse dal mare: guardando l’Adriatico dagli interni caldi negli appartamenti si intuiva un vasto bagno termale più che una fredda distesa di acqua salata. Come aveva formulato il professore, nonostante il risultato finale fosse comunque la nebbia azzurra, il modo in cui immaginavamo fosse comparsa ne cambiava la sostanza. “Nebbia” fu anche la soluzione dell’indovinello che ci introdusse nella casa del matematico:

( Qual’è quella cosa che scende in salita e sale in discesa? ).

Era stata una giornata di insolito tepore, tanto da spingerci a bighellonare al fermopanca. Il professore, di ritorno dalla camminata, abboccò al nostro indovinello e dopo un momento di muta riflessione ci invitò in casa a prendere una tazza di tè. Dalla finestra con il ventilatore si vedeva la spiaggia, il fermopanca ed il parallelo di anziani in ascolto, le stesse cose che si controllavano dalla nostra panchina, mentre l’interno della stanza era sempre stata un’ipotesi della nostra immaginazione. La spiegazione dell’arcano era finalmente a portata di mano ed era curioso esserci arrivati attirando l’uomo del mistero con un enigma. La soluzione dell’indovinello era sciocca ed imprecisa: discendendo la montagna la nebbia sale, invece salendo da bassa quota, scende; ma ci presentò l’occasione di chiedere lo scopo di quel ventilatore. Una delle nostre congetture più realistiche lo vedeva puntato verso l’esterno per non far entrare la nebbia quando si tenevano le finestre aperte, invece la ragione stava a monte: serviva per tenere le finestre aperte. Gli scuri non avevano fermi esterni e senza ventilatore il vento le faceva sbattere in continuazione. L’unico sistema per far entrare la luce del sole in quella stanza era tenere la finestra spalancata e calcolare una forza uguale ma contraria al vento. Notammo l’anemometro sul davanzale ed i calcoli tracciati con un gesso sulle mattonelle del pavimento, in cui si misurava l’esatta distanza del ventilatore dalla finestra in correlazione all’intensità della corrente.
Il matematico spiegò quell’ingegnoso, per quanto tutt’altro che pratico, esperimento senza entusiasmo, come si spiega il funzionamento della lavastoviglie ad un nuovo inquilino. Poi scarabocchiò una formula su un pezzo di carta sfidandoci a risolvere il problema in risposta al nostro indovinello:

{ Autunno: [ ( = ) e ( ≈ ) ] }.

L’aria fresca aiutava a gustare la tazza di tè e a tenere attiva la nostra concentrazione ma, nonostante la sinergia dei nostri intelletti, non riuscimmo a tradurre l’enigma del professor Minaccia. Giustificai quella sconfitta incolpando i nostri studi letterari, che ci impedivano di comprendere il linguaggio dell’algebra. In seguito capii: come i poeti si esprimono con le parole, il matematico utilizzava le espressioni per formulare l’immaginazione.

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