Claustrofobia Universale
il LATO DEL CERCHIO - MERCOLEDÍ 1 MARZO 2017
Di nuovo quella canzone. Si ripete in loop, non so più se dagli altoparlanti o nel sistema operativo della mia testa, o se le due cose insieme. Gli archi e gli ottoni sommergono i pensieri isolando tutto sotto la marea musicale, poi inizia la voce e l’eco di quella preghiera rimbomba nelle profondità del mio orecchio. Canta dall’angolo di una stanza rimasta a custodire uno spazio vuoto, mentre gli inquilini vagano nel loro quartiere, come sfollati.
Nessuno sa più abitare dentro qualcosa, molte case vengono demolite per lasciare spazio ai metri cubi, ed il vento alza dalle macerie una nebbia di polvere sul mio parabrezza. L’umanità è al pascolo, e tuttavia la sensazione di oppressione è avvertita ovunque: “Claustrofobia Universale” l’hanno chiamata i burocrati e i mass media. Da quando i confini si sono estesi fino alle galassie oltre il Sistema Solare, l’idea di spazio si è rivoluzionata: la volta celeste non è più una finestra verso l’universo, ma un limite che accresce la necessità di fuggire.
Le strade sono piene di dimostranti, eppure sorvolandole non si ha l’impressione né di pieno né di folla, persino il manifestante vicino è percepito come una recinzione. Sventolano cartelloni chiedendo un passaggio verso l’immensa capienza, verso ovunque. I pochi milioni rimasti nel pianeta sono i più poveri: chi non si può permettere l’equipaggiamento per l’esodo tenta la fuga dalle mura di casa correndo verso il deserto o nelle praterie estese in cerca di un orizzonte più distante, ma anche lì durano poco. Consumati dalla psicosi chiamano il mio taxi per essere traghettati verso il “respiro libero, una seconda nascita oltre l’atmosfera: la placenta del mondo”, come recita lo slogan della mia compagnia, e mi ritrovo a viaggiare con la cappotta aperta anche sotto il diluvio dell’onnipotente. Ne ho trasportati tanti, desiderosi di esplodere nell'universo, fuochi d'artificio liquidi che si estendono nello spazio infinito, come se anche le viscere fossero vittime della claustrofobia, e alla fine restano solo relitti di uomini abbandonati nel silenzio perenne ⎯
Sento ancora quella voce, il segnale rimbalza sull’atmosfera da qualche vecchia stazione radio e, nonostante il volume, continua a sembrarmi lontana, sola in un pianeta spopolato chiuso in un opprimente moto perpetuo lungo l’astronomica traiettoria prestabilita, sempre uguale, prevedibile. Un tempo questa idea era confortante, ma l’illusione che la libertà dipenda da uno spazio illimitato, ha reso l’uomo prigioniero all’interno di un infinito insieme di spazi chiusi.
La voce si spegne, l’unicità di quella melodia sfuma nel silenzio e l’assenza lascia spazio ad ogni cosa. Da lì tutto potrebbe essere.

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